PRENDERCI CURA DELLA VITA

Il nostro unico lavoro è quello di prenderci cura della vita. E condotto felicemente a termine quando coloro che amiamo possono trovare il loro nutrimento lontano da noi. Malgrado la nostra assenza. E, forse, grazie alla nostra assenza. (Christian Bobin)

Bobin inizia subito ad aiutarci, a metterci in guardia, a dare valore a questo verbo, avere cura.  Prendersi cura di qualcuno non è sostituirsi a lui, non è invadere il campo dell’altro. Non è voler  risolvere a tutti i costi i suoi problemi, non è neppure appiccicarsi. Non è volerlo guarire a tutti i  costi. Perché qualcuno diceva: attenzione, che il male può essere il bene che si vuole imporre agli  altri. Allora forse aver cura è provare a comprendere quando esserci e quando fermarsi a debita  distanza. E’ abbracciare quando serve – io questo faccio un po’ fatica a farlo, sapendo che in  effetti ogni abbraccio non è solo dato, è anche ricevuto. Forse aver cura è spronare l’altro a tirar  fuori il meglio di quello che è. E forse, aver cura è aiutare l’altro a guardarsi con gli occhi che tu  scegli di aver su di lui, occhi di amore. Insomma, abbiamo inteso che aver cura non è un qualcosa  che ha a che fare semplicemente con un cullarsi l’uno con l’altro. Io credo che abbia più a che  fare con il provare a risvegliarci insieme.(Fra Giorgio)

Ho sentito il battito del Tuo Cuore nella quiete perfetta dei campi, nel Tabernacolo oscuro di una cattedrale vuota, nell’unità di cuore e di mente di un’assemblea di persone che ti amano.
Ti ho trovato nella gioia, dove ti cerco e spesso ti trovo. Ma sempre ti trovo nella sofferenza. La sofferenza è come il rintocco della campana che chiama la sposa di Dio alla preghiera.
Signore, ti ho trovato nella terribile grandezza della sofferenza degli altri. Ti ho visto nella sublime accettazione e nell’inspiegabile gioia di coloro la cui vita è tormentata dal dolore.
Ma non sono riuscita a trovarti nei miei piccoli mali e nei miei banali dispiaceri. Nella mia fatica ho lasciato passare inutilmente il dramma della Tua Passione redentrice, e la vitalità gioiosa della tua Pasqua è soffocata dal grigiore della mia autocommiserazione.
Signore io credo. Ma tu aiuta la mia fede.
(Madre Teresa di Calcutta)

Signore, è terra sacra il dolore: ch’io mi tolga i sandali quando entro e non abbia a scivolare fra i letti senza incontrare un volto e un nome. Signore, è una cella oscura la malattia: le sue pareti trasudano paura. È un urlo muto che invoca ascolto ai tanti bisogni e nascoste emozioni: chiede di non negarli o minimizzarli, ma riconoscerli e accompagnarli. Insegnami, o Dio, l’arte del silenzio: ch’io freni le domande inopportune, i consigli non richiesti, le frasi fatte; e, davanti all’animo amareggiato, a spiegare l’insondabile mistero, ch’io non tiri in campo il tuo volere, ma porti nella preghiera il lamento. Sia piuttosto il mio corpo a parlare: il sorriso aperto, il calore delle mani; e nel cuore oppresso dal male, possa risvegliare le risorse sopite, aiuti a scoprire le opportunità nuove. Ch’io non pretenda, potente Signore, di risparmiargli ogni pena e affanno e m’accontenti di stare al suo fianco come umile testimone di speranza, come fedele compagno di viaggio.(Don Fausto Cossalter)

Fiorire nel fango

Un pensiero gentile, goccia dopo goccia, scava anche la più dura delle rocce, quella dell’odio. Non priviamoci dunque della soddisfazione di rispondere con gentilezza alla paura, allo sgarbo, alla vendetta, al sopruso, all’ignoranza, alla violenza, al rancore. Nell’intimità̀ del nostro sentire potremmo iniziare con l’essere gentili con noi stessi.
Gentilezza ovunque. Anche nel silenzio. Tra le note dell’esistenza. Il seme della gentilezza autentica, come il fiore di loto, ha il potere di crescere e sbocciare anche nel fango.
Basterebbe così poco, basterebbe un po’ di meraviglia. Rendersi conto che siamo circondati da un miracolo costante. Concedersi il tempo per stare in silenzio ad ascoltare. Ascoltare e sentire.
Concedersi il privilegio di trovare degli spazi liberi per guardare il cielo. La gentilezza ci fa respirare. Ricordare. Che i fiori crescono ancora ovunque. Che in questa terra siamo insieme.
Perché ci sono lontananze che avvicinano e solitudini che uniscono.
(Daniel Lumera)