Omelia anno B – Quinta Domenica
18 marzo 2018 come 21.3.2021- (anno B) UNA LUNGA STORIA D’AMORE
Ger 31,31-34;
Sal 50;
Eb 5,7-9;
Gv 12,20-33
In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà.
Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Una lunga storia d’amore tra Dio e l’umanità, tra Dio e questo popolo d’Israele di cui si narra e che noi in questi due mesi abbiamo gustato, incontrando i personaggi più famosi che hanno proprio fatto la storia di questo popolo. Abbiamo iniziato con Noè: Dio si era stufato dell’umanità, così tanto che aveva deciso di fare qualcosa, salvando giusto una famiglia proprio per creare una nuova umanità, una nuova creazione in qualche modo. Sì, perché Dio è così, non si stancherà mai dell’uomo, ha sempre questo pazzo desiderio di continuare a costruire qualcosa con questa umanità, con quello che siamo noi, e ogni volta che bisogna ricominciare da capo c’è la parola alleanza, anche oggi nella prima lettura l’abbiamo ascoltata quasi una decina di volte in poche righe. Alleanza è fare un patto con qualcuno, fare pace, impegnarsi. Dio quel giorno si impegnò a salvare quella famiglia e chiese all’uomo di mettere anche lui qualche cosa in gioco. A Noè e all’umanità chiese ‘non fatevi più male tra di voi’. E’ questo il nostro Dio, a lui importa che tra di noi riusciamo ad andare d’accordo. Poi aveva incontrato Abramo che ha atteso tutta una vita la promessa di un figlio…attendere tutta una vita e non disperare, questa sì che è fede. Alla fine arriva Isacco, il figlio della promessa. Dio chiede però di ridonare questo figlio, salire sul monte e offrirlo: Abramo si fida così tanto di questo Dio da essere disposto a fare anche questo gesto. Una nuova alleanza viene creata che ha bisogno della fiducia che noi dobbiamo dare a Dio senza della quale non si può fare niente. Poi ricordate Mosè che riuscì a far uscire il popolo dall’Egitto, Mosè addirittura l’alleanza la vide scrivere col dito di Dio sulle tavole della legge, i dieci comandamenti, queste dieci parole preziose. C’era bisogno che ci fosse qualcosa di concreto su cui lavorare in questa nuova alleanza e questi dieci comandamenti tracciano una cartina della nostra vita.
Oggi il profeta Geremia, che vive il secolo peggiore della schiavitù del popolo d’Israele, dice queste parole di fuoco e bellezza: Dio vuole scrivere la sua legge non più su tavole di pietra ma in ogni cuore. Non c’ più il Dio che va bene a tutti, ma con ognuno di noi deve avere una relazione faccia a faccia, cuore a cuore, vuole che ciascuno di noi faccia la propria alleanza con lui.
Allora proviamo anche noi a metterci lì un po’, noi e il nostro Dio e fare la nostra alleanza con lui, scrivere un patto con lui: può essere veramente la cosa più preziosa che fai per questa Pasqua.
La seconda lettura ci regala un Gesù che piange, grida e che non ha null’altro da fare che lasciarsi andare fra le braccia del Padre. Gesù ci insegna che non è la nostra grandezza, bellezza, ma è soprattutto attraverso la nostra fragilità, le nostre ferite che Dio ci accoglie tra le sue braccia. E’ veramente il mistero più grande quello di Dio che ci accoglie per quello che siamo e le nostre ferite possono veramente diventare feritoie da cui passa la luce divina. Credo che questa sia la cosa più importante: sapere che quando hai bisogno, chiedi aiuto, tutto qui, credo che a Dio piaccia quando gli chiediamo una mano.
Nel Vangelo siamo ormai agli ultimi giorni della vita di Gesù, iniziano dei discorsi prima dell’Ultima Cena così ricca di spunti. ‘Vogliamo vedere Gesù’ esclamano questi Greci che arrivano. Sarebbe bello che anche noi ci chiedessimo ’Gesù vogliamo proprio incontrarlo?’
La risposta di Gesù ci chiede uno sguardo nuovo ed è per noi questa sera. Questo chicco di grano che deve morire per portare frutto non è una visione doloristica della religione che a volte abbiamo usato ma richiama alla semplicità, ad essere naturali…’se vuoi vedermi, guarda un chicco di grano’. Il chicco di grano è una cosa
da nulla, a guardarlo sembra morto, secco, ma dentro quel chicco di grano c’è una potenzialità enorme, c’è una spiga dentro quel chicco. A diventare spiga però ci vuole tempo, cura, pazienza, ci vuole soprattutto trasformazione. Quel chicco per diventare spiga dovrà essere sepolto nella terra squarciata dall’aratro, andare fino in fondo e starsene lì tutto l’inverno, morire, marcire. Solo così può sperare di vivere e di sbucar fuori dalla terra in primavera come fra un po’ vedremo nei nostri campi e poi portare frutto nel bel mezzo dell’estate. Che bello pensare che in fondo Gesù ci dice di sé ‘sono un chicco di grano, un pezzo di pane’ quello che stiamo celebrando noi questa sera. E’ bello pensare che è una trasformazione, non è una morte dove sta anche il morire. Credo nella vita di essere morto diverse volte, quante cose bisogna lasciare andare, far morire! Quanti preconcetti, moralismi, razzismi bisogna far morire perché si trasformino.
Stasera la liturgia insiste su questo, come se ci ripetesse ‘continua a trasformarti se vuoi portare il frutto buono’. Notate che il termine ebraico per dire figlio e chicco è lo stesso. Che bello pensare che Gesù diventi proprio questo chicco che ha un unico scopo: portare molto frutto. Ognuno di noi è un chicco con come unico scopo nella vita questo, portare molto frutto. Morire è solo un passaggio indispensabile per portare molto frutto che non viene dal nulla, ma da dentro, dall’impegno.
La poetessa francese Marie Noel scrisse ‘A 18 anni ho venduto il mio spirito a Dio, come altri vendono la loro anima al diavolo.
Allora ero goffa, brutta, mingherlina, inetta, come il «brutto anitroccolo», ma avevo molto spirito… uno spirito chiaro, vivo, acuto, pungente, che mordeva senza misericordia. Non appena una persona un tantino ridicola arrischiava di mostrarsi a me, l’acchiappavo al volo e la fissavo con una parola pungente, come si fissa un insetto su un tappo, con uno spillo. Ciò mi divertiva molto e faceva ridere la compagnia. Ma i miei cugini mi giudicavano «cattiva», e mio fratello mi chiamava «vipera». Avrebbe fatto meglio a dire zanzara o vespa. Un giorno, però, ci pensai su e mi vidi tal quale ero col mio crudele pungiglione. Poteva forse una cristiana accettare di essere così?
Fui presa dal rimorso.
E una mattina ne parlai con Nostro Signore, dopo la Comunione.
Rinunciare al mio spirito? Cosa mi rimaneva senza di esso? Non avevo bellezza né fascino, niente che potesse piacere. Sacrificare il mio spirito? Non mi ci potevo decidere. Mi costava troppo. Mi costava tutto.
Dentro di me, Dio attendeva con aria di rimprovero. Fu allora che mi venne l’idea – forse fu lui ad ispirarmela – di cedergli il mio spirito dietro ricompensa. Un baratto.
Glielo vendetti. Caro. Senza far prezzi. Dio è ricco. Dio è giusto. E generoso, anche. Contavo che me l’avrebbe pagato bene. Una volta concluso il mercato – io negli affari sono onesta – non osai più servirmi dell’oggetto che avevo ceduto. Da principio mi sentii legata, impacciata, come colpita da improvvisa infermità. Le parole mi volavano alle labbra, le inghiottivo già dette a metà. Il che non era sempre comodo. Ma poi l’abitudine mi venne in aiuto. E diventai poco a poco la piccola, mite zitella cui nessuno fa caso, né in famiglia fuori… cui nessuno fa caso più che a un fiammifero spento. Sono passati vent’anni… Che cosa mi avrà dato il Buon Dio, in cambio della mia malizia?
Non la bellezza. Non il fascino. Non l’amore. Non la felicità.
Ecco. Mi diede il dono di una vista nuova, per cogliere immediatamente, anziché il lato ridicolo, la bellezza e le qualità delle persone, anche di quelle che non ne hanno. Al punto che oggi riesco ad amare tutti’.
Giorgio